Cosa sono, davvero, gli asset russi Nel linguaggio europeo, “asset russi” indica soprattutto le riserve della Banca centrale russa (titoli, depositi, strumenti finanziari) che Mosca aveva parcheggiato in occidente. Sono riserve ufficiali accumulate negli anni e tenute fuori dalla Russia per ragioni di liquidità e diversificazione. A lato ci sono i beni di oligarchi, società e individui sanzionati, ma il cuore del dossier è sovrano: la cassaforte della banca centrale. L’inizio: 2022, la decisione di congelare Dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina (febbraio 2022), Ue, G7 e altri partner bloccano una parte enorme delle riserve russe. L’obiettivo è doppio: (a) ridurre la capacità di Mosca di stabilizzare il proprio sistema finanziario e sostenere lo sforzo bellico; (b) creare una leva economica che renda più costosa la guerra. La parola chiave non è “sequestro”, ma immobilizzazione: il proprietario resta la Russia, ma non può usare quei fondi. La geografia del denaro: perché conta dove si trovano In Europa sono immobilizzati circa 210 miliardi di euro di riserve russe. La parte maggiore – circa 185 miliardi – è concentrata in Belgio, perché custodita e amministrata da Euroclear, grande infrastruttura di regolamento titoli con sede a Bruxelles. Il resto è distribuito in altre piazze europee, soprattutto in Francia e poi in misura minore in altri Stati membri. Questa concentrazione rende il Belgio il perno tecnico (e quindi politico) della questione. Immobilizzare non è confiscare: la linea rossa Per anni l’Ue ha evitato di toccare il “capitale” (il principale) per una ragione semplice: la confisca di riserve sovrane apre un fronte legale e sistemico. C’è il tema dell’immunità dello stato e delle contestazioni nei tribunali; c’è il rischio di ritorsioni su asset occidentali ancora in Russia; c’è un precedente che potrebbe inquietare i mercati (“se lo fai a Mosca, domani a chi?”). Per questo l’Europa si è mossa con passi graduali. Il primo compromesso: usare i proventi Anche immobilizzati, quei fondi producono interessi e rendimenti. Da qui l’idea degli extra-profitti (windfall profits): non prendi il capitale, ma utilizzi una parte dei proventi generati dal fatto che il denaro resta parcheggiato. Su questa base l’Ue ha già costruito canali di sostegno a Kyiv, soprattutto tramite i flussi generati dentro Euroclear (dopo tasse, accantonamenti e regole di riparto). Perché oggi l’Europa ne parla ossessivamente Perché il 2026-2027 è dietro l’angolo e il fabbisogno ucraino non si copre con gli interessi. La Commissione europea, a inizio dicembre 2025, mette sul tavolo un obiettivo: garantire circa 90 miliardi di euro per sostenere l’Ucraina nel biennio (difesa e bilancio). Nel frattempo, la politica si è complicata: vincoli fiscali, stanchezza dell’elettorato, divisioni interne, e la variabile del sostegno esterno che non appare più “automatico”. Tradotto: serve una soluzione grande, rapida, e che non dipenda da un nuovo braccio di ferro ogni semestre. La proposta che divide: il “reparations loan” L’idea è di fare un salto senza chiamarlo salto: non confiscare gli asset, ma usarli per ancorare un maxi-finanziamento. In pratica, la Commissione propone di erogare a Kyiv un prestito molto ampio prendendo liquidità dalle disponibilità (cash) delle istituzioni che custodiscono gli asset immobilizzati e legando l’operazione al principio delle riparazioni: l’Ucraina rimborserà pienamente solo quando la Russia pagherà i danni di guerra. Il messaggio politico è: “anticipiamo oggi ciò che Mosca dovrebbe pagare domani”. Il passaggio-chiave già fatto: “blindare” l’immobilizzazione Fino a pochi giorni fa, un punto debole era procedurale: molte misure restrittive Ue vanno rinnovate periodicamente e richiedono unanimità. Un veto poteva trasformarsi in rischio di sblocco: se non rinnovi, la Russia torna a chiedere indietro i fondi. Il 12 dicembre 2025 il Consiglio Ue ha adottato una norma d’urgenza che proibisce i trasferimenti verso la Russia delle riserve immobilizzate della banca centrale (e di entità che agiscono per suo conto), usando l’articolo 122 dei Trattati (clausola da emergenza economica), che consente una decisione a maggioranza qualificata. È il “lucchetto” che rende credibile qualsiasi schema basato su quegli asset. Perché il voto tra 18 e 19 dicembre è decisivo Il Consiglio europeo del 18-19 dicembre 2025 è lo snodo politico: i leader devono decidere se dare copertura e direzione a questa architettura, scegliendo tra due strade: il “reparations loan” agganciato agli asset immobilizzati, oppure una forma di debito comune europeo garantito dal bilancio Ue. Non è solo un voto “su come pagare”: è una scelta di postura. Se passa la soluzione legata agli asset, l’Ue dice a Mosca che il congelamento non è una parentesi, ma una leva strategica che aumenta il costo politico e finanziario della guerra. Perché il Belgio è al centro: non ideologia, ma esposizione Il Belgio è coinvolto perché ospita Euroclear e quindi il cuore operativo del dossier. Se l’Ue “spinge” sugli asset, il primo bersaglio di cause, pressioni e ritorsioni diventa la piazza belga: reputazione della clearing house, stabilità del sistema finanziario, rischio di contenziosi enormi, e bisogno di protezioni legali e politiche per Euroclear. Per questo Bruxelles chiede garanzie e condivisione del rischio: non vuole che una scelta europea si traduca in un problema “nazionale” scaricato su chi, per pura geografia finanziaria, custodisce l’asset più sensibile. I rischi che frenano (e perché non sono solo “paure”) Ci sono tre timori reali: (a) la battaglia giudiziaria sulla sovranità e sul precedente; (b) la ritorsione, perché la Russia può colpire asset occidentali ancora presenti sul suo territorio; (c) la credibilità dell’Europa come area sicura per depositi e investimenti, se passa l’idea che la proprietà possa essere “rimodellata” politicamente. A questo si aggiunge l’ostacolo politico: alcuni governi sono contrari per linea filorussa o per calcolo interno, e ogni passaggio che richiede unanimità diventa un campo minato negoziale. La posta in gioco, in una frase Gli asset russi sono diventati il test più concreto su cosa sia oggi l’Unione: un club che congela e spera, oppure una potenza regolatoria capace di trasformare una sanzione in una strategia di lungo periodo, assumendosi i rischi – e dividendoli – per non lasciare a Kyiv (e a se stessa) il conto della guerra.
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